In una recente pronuncia della Suprema Corte si affronta il caso di un paziente che entra in ospedale per un intervento al ginocchio. Prima dell’intervento il chirurgo ortopedico lo sottopone ad una serie di esami tra cui anche una radiografia toracica il cui referto evidenzia la probabile presenza di una tumore al livello dei polmoni. Veniva consigliata una tac.
Il chirurgo ortopedico procede con l’intervento che riesce perfettamente ma le condizioni del paziente peggiorano rapidamente causandone il decesso a distanza di solo qualche mese.
Gli eredi decidono di intentare una causa contro il medico e la struttura sanitaria ma la domanda viene respinta sia dal Giudice di prime cure che in sede di gravame innanzi alla Corte di Appello di Brescia. I giudici di merito rilevavano infatti che il paziente era affetto da una patologia non curabile e non operabile. Non era stato possibile accertare, tramite apposita CTU, né la sussistenza di un qualche rapporto tra l’intervento al ginocchio ed il crollo delle condizioni del paziente, né se la tempestiva diagnosi avrebbe permesso di sottoporre il paziente a cure tali da evitarne il decesso. Venivano infatti accolte le tesi difensive del medico e della struttura sanitaria che sostenevano, appunto, che una diagnosi tempestiva non avrebbe cambiato nulla, quanto ad esito infausto del decorso patologico, e gli attori non avevano avuto modo di fornire una prova contraria.
La sentenza n. 11522/2014 del 6.02.2014 della Cassazione Civile ribalta le due precedenti decisioni dei giudici di merito. I Giudici della Suprema Corte ritengono infatti che l’omissione della diagnosi di una patologia, sebbene incurabile in quanto allo stadio terminale, cagiona al paziente un danno alla persona in quanto determina un ritardo nella possibilità di intervento. Infatti, come rileva la Cassazione, l’omessa diagnosi non ha consentito al paziente di poter fruire di tale intervento – sebbene solo palliativo, atteso lo stato di avanzamento del tumore – e, quindi, il paziente ha dovuto sopportare le conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, posto che la tempestiva esecuzione dell’intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le sue sofferenze.
La sopra indicata sentenza si riallaccia ad un precedente filone giurisprudenziale sia di legittimità (cfr. Cass., n. 23846 del 2008) che di merito (App. di Roma, Sez. I, 11 febbraio 2013). Ciò complica notevolmente la posizione dei medici meno scrupolosi. In effetti, nel caso di specie, risulta abbastanza sconcertante l’atteggiamento del chirurgo ortopedico: pur essendo emersa l’esistenza di una grave patologia, che certo esulava il suo campo ma che indubbiamente meritava un approfondimento, il medico non aveva fatto una piega. Aveva compiuto il suo intervento ed aveva dimesso il paziente, senza nemmeno prescrivergli ulteriori accertamenti.
Diventa quindi giuridicamente rilevante la tardività della diagnosi che abbia inciso sulla qualità di vita del paziente. Ciò in quanto il ritardo può significativamente compromettere la “qualità di vita” a cui avrebbe avuto diritto il paziente a fronte di una corretta diagnosi.
La giurisprudenza, infatti, appare costante ed uniforme nell’affermare che anche a fronte di una patologia incurabile, cui la medicina nulla può se non alleviare le sofferenze, la diagnosi non tempestiva cagiona comunque al paziente un danno alla propria persona fisica, per il fatto di aver dovuto sopportare le gravi e dolorose conseguenze della malattia con le conseguenti sofferenze, che avrebbero potuto essere quanto meno alleviate.
Nel caso in esame ci troviamo di fronte a quello che in dottrina e giurisprudenza viene definito “danno da perdita di chances”, intendendosi con ciò non solo la chance di sopravvivenza ma anche la possibilità di vivere meglio durante il decorso della malattia.La Cassazione ritiene che vi sia ugualmente una responsabilità del medico, la cui funzione sociale non è soltanto quella di curare e guarire i pazienti, ma anche di fare in modo, se il decesso non può essere evitato, che il paziente viva il più a lungo ed il meglio possibile.In conclusione, secondo l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, la chance, intesa come concreta ed effettiva occasione di poter conseguire un determinato bene o risultato, non è una mera aspettativama un’entità giuridicamente rilevante suscettibile di valutazione economico-patrimoniale. La perdita della possibilità stessa di conseguire un risultato favorevole determina di per sé un danno degno di essere risarcito. Appare quindi rilevante evidenziare che la Suprema Corte ritiene risarcibile non solo la perdita della possibilità di guarire ma anche la perdita della possibilità di una vita migliore.