Malasanità in gravidanza e risarcimento del danno nella diagnosi
Malasanità in Gravidanza: Risarcimento per l’Omessa Diagnosi delle Malformazioni Feto e le Conseguenze del danno di una Nascita Non Desiderata.
Affronteremo in questo articolo il cosiddetto danno da nascita indesiderata ossia quella tipologia di danno, suscettibile di risarcimento, che si determina per episodi di malasanità in gravidanza quali l’omesso riscontro di gravi problemi del nascituro durante gli accertamenti cui la gestante viene periodicamente sottoposta in gravidanza.
Il danno da nascita indesiderata può configurarsi, seppure più raramente, anche nei casi di errata esecuzione di interventi di interruzione di gravidanza.
Diritto al risarcimento per malasanità
Danno da mancata diagnosi di gravi patologie del nascituro entro il termine dei 90 giorni dal concepimento.
Il diritto di informazione in gravidanza
Abbiamo avuto modo di evidenziare più volte come nel contesto dei trattamenti sanitari, viga il concetto di “alleanza terapeutica”, tra medico e paziente. Si tratta di un’espressione che racchiude tutti gli scambi di informazioni tra i sanitari ed il paziente, volti a conseguire il miglior risultato medicalmente possibile/raggiungibile.
Il codice di deontologia medica
Il medico è tenuto a fornire all’assistito tutti dati necessari a rendere informato il paziente sugli aspetti del suo quadro clinico. Il dovere di informazione riveste un aspetto centrale, su cui si sofferma specificamente ed esplicitamente anche il codice di deontologia medica. A tal proposito si riporta il contenuto dell’art. 32 del suddetto codice, per il quale “Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente”. Infatti, in base all’art. 30 “Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate (…). Il medico deve, altresì, soddisfare le richieste di informazione del cittadino in tema di prevenzione”.
In questo quadro di riferimento si innesta il dovere informativo, quale presupposto e condizione necessaria per un’autodeterminazione piena, consapevole, libera e responsabile del paziente.
In relazione al tema che ci interessa attualmente, assume notevole rilevanza l’assistenza e la diagnosi prenatale del nascituro, soprattutto in correlazione con le disposizioni della Legge 22 maggio 1978, n. 194 in tema di interruzione volontaria di gravidanza.
L’art. 4 della Legge 194/78
All’art. 4, il legislatore ha ammesso la possibilità di interrompere volontariamente la gravidanza entro i 90 giorni dal concepimento laddove la prosecuzione della gestazione generi un serio pericolo per la salute fisica o psichica della madre, anche tenendo in considerazione il suo stato di salute, le sue condizioni sociali, familiari, economiche, le circostanze in cui è avvenuto il concepimento e la previsione di anomalie o malformazioni del concepito. Su quest’ultimo aspetto, la Suprema Corte ha precisato come l’interruzione volontaria della gravidanza sia finalizzata solo ad evitare un pericolo serio (entro i 90 giorni) o grave (oltre i 90 giorni) per la salute della gestante, con divieto di aborto eugenetico qualora le eventuali malformazioni o anomalie del feto non siano idonee a cagionare il danno alla salute, fisico o psichico, della gestante.
Malasanità gravidanza risarcimento del danno prenatale
Dunque, in caso di mancata individuazione delle presenti ed accertabili anomalie del feto malformato, o affetto da patologie, nel termine di 90 giorni dal concepimento, con conseguente nascita indesiderata, i genitori (vedremo meglio il perché dell’utilizzo del plurale) possono agire per il risarcimento del danno, dando la prova che:
- la gravidanza, in base ai requisiti richiesti dalla legge, sarebbe stata interrotta consapevolmente ove fosse stata data tempestiva informazione dell’anomalia fetale.
Il ricorso alle presunzioni
Tale circostanza può essere dimostrata anche tramite presunzioni. Il termine presunzione, ai sensi dell’art. 2727 del codice civile indica le conseguenze che la legge, o il giudice, trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto. Si tratta, cioè, di ricorrere a qualsiasi argomento, congettura, indizio attraverso cui, da una determinata circostanza provata, si giunge a ritenere dimostrato un fatto ulteriore sfornito di prova diretta.
In particolare, in questo caso si può ricorrere alle seguenti presunzioni:
- il ricorso al consulto medico per conoscere lo stato di salute del nascituro. Si tratta di un possibile indizio di attenzione, da parte dei genitori, dello stato di salute del feto;
- le pregresse manifestazioni di pensiero della gestante. Occorre dimostrare la propria precedente adesione all’opzione abortiva.
Il risarcimento per malasanità in gravidanza spetta anche al padre
Nei casi di malasanità legati a responsabilità medica per errata diagnosi circa lo stato di salute del feto, il risarcimento non sarà circoscritto alla sola madre-gestante. Occorre evidenziare che il risarcimento dei danni, che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’errata diagnosi, spetta anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che si incentrano sulla procreazione cosciente e responsabile. Il padre, infatti, non può considerarsi estraneo agli effetti negativi dell’errore medico.
I diritti del padre
Nei casi di malasanità in gravidanza, quindi, anche il padre viene considerato uno dei soggetti “protetti”, cui spetta il diritto al risarcimento del danno da nascita indesiderata conseguente alla omessa diagnosi prenatale di gravi problemi del nascituro che una condotta assistenziale corretta avrebbe consentito di diagnosticare. Il risarcimento del danno da nascita indesiderata ricomprenderà anche gli aspetti più prettamente patrimoniali. Saranno infatti oggetto di risarcimento anche i danni e/o le spese da affrontare per il mantenimento dei figli. Si tratta di una valutazione comparativa tra le spese medie sostenute per il mantenimento di un figlio sano e la spesa necessaria per il mantenimento, la cura e l’assistenza ad un figlio affetto da gravi patologie.
Inoltre, in tema di danno da nascita indesiderata, il danno risarcibile non si limita all’eventuale danno subito all’integrità psico-fisica e al danno patrimoniale. Infatti, il non avere figli, così come il non avere figli costretti ad una vita breve o sventurata (perché affetti da malattie incurabili e devastanti), costituiscono diritti essenziali dell’individuo che trovano il proprio fondamento nella costituzione, la cui violazione costituisce un danno ingiusto (Trib. di Salerno).
L’autodeterminazione come diritto a sé stante
In situazioni di omessa diagnosi di patologie o malformazioni, il principale e primario bene giuridico violato risulta essere il diritto ad una corretta informazione. Abbiamo già visto in cosa si sostanzia questo diritto, la cui violazione costituisce il presupposto per un’autonoma voce di danno risarcibile. Infatti, solo una completa informazione consente al paziente di orientarsi (dopo sue valutazioni interiori) verso la soluzione ritenuta migliore per sé.
L’informazione parziale restringe la libertà di scelta dell’individuo, inconsapevolmente costretto ad orientarsi sulla base di informazioni incomplete o, peggio, errate.
Omessa diagnosi prenatale: le conseguenze
Un errore nella diagnosi prenatale, pertanto, condurrà il sanitario a fornire alla gestante informazioni sbagliate, impedendole di autodeterminarsi in maniera consapevole, con decisioni anche orientate, ove consentito dalla Legge 194/78, verso l’interruzione volontaria della gravidanza. Laddove, pertanto, la donna, a causa di un errore medico, porterà a termine una gravidanza che altrimenti avrebbe interrotto, con conseguente nascita di un neonato affetto da gravi malformazioni, potranno configurarsi le seguenti voci di danno:
- un danno non patrimoniale comprendente l’eventuale danno alla salute di natura fisica o psichica della gestante e le sofferenze morali;
- un danno all’autodeterminazione della paziente;
- un danno patrimoniale da maggiori oneri di mantenimento ed assistenza del figlio.
La mancanza di informazioni non consente alla paziente di decidere e aderire consapevolmente alla prosecuzione della gravidanza.
La tardività della diagnosi, inoltre, impedisce alla gestante di prepararsi psicologicamente e se del caso, anche materialmente, all’arrivo di un/a figlio/a affetto/a da gravi patologie.
La violazione del diritto di informazione
La gestante potrebbe aver deciso di non interrompere la gravidanza sulla base delle rassicurazioni dei medici in sede di controllo, con esposizione di valori a basso rischio di complicanze, con il venir meno della necessità di eseguire ulteriori esami mirati volti ad un responso più efficace. Pertanto, tale erronea condotta professionale induce a carpire un consenso alla prosecuzione della gravidanza (o un mancato assenso all’interruzione), che non ci sarebbe stato qualora gli accertamenti sanitari avessero rilevato correttamente e tempestivamente la reale portata della vicenda. In difetto, la paziente non ha potuto autodeterminarsi liberamente. A tal proposito, la violazione del consenso informato è risarcibile autonomamente se il paziente prova la diversa volontà, in quanto il diritto all’autodeterminazione è diritto autonomo e distinto rispetto al diritto alla salute.
Limiti alla possibile interruzione della gravidanza
La mancata prospettazione delle dovute informazioni rappresenta, di per sé, un quadro tragico, in quanto induce a scoprire successivamente quanto poteva già essere conosciuto e prevenuto.
L’art. 6 della Legge 194/78
A queste considerazioni occorre aggiungere che esistono tutta una serie di limitazioni all’interruzione di gravidanza. Infatti, la legge 194 del 1978 prevede, all’art. 6, che:
“l’interruzione volontaria della gravidanza può essere praticata dopo i primi 90 giorni:
- a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
- b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
L’art. 7 della Legge 194/78
Articolo cui va aggiunto quanto disposto dall’art. 7, per il quale:
“Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’articolo 6 e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”.
In sintesi, la possibilità di vita autonoma del feto impedisce di poter ricorrere all’interruzione di gravidanza, a meno che la prosecuzione della stessa non rappresenti un serio e concreto pericolo di vita per la gestante.
Tuttavia, la legge omette qualsiasi chiarimento in merito al significato dell’espressione “possibile vita autonoma del feto” e più precisamente, all’individuazione di quale sia l’epoca gestazionale a partire dalla quale si può ritenere che il feto possa vivere/sopravvivere autonomamente.
La possibilità di vita autonoma del feto
Nel 1978, quando fu introdotta la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza, la soglia di sopravvivenza dei neonati prematuri era a 24-25 settimane di età gestazionale. Oggi, grazie al miglioramento delle conoscenze mediche e del progresso dell’assistenza neonatologica, questa soglia si è progressivamente abbassata a 22-23 settimane. Oggi, in molti centri italiani, la sopravvivenza nei nati a 22 e 23 settimane è mediamente del 23% e del 32% (dati 2013 dell’Italian Vermont Oxford Network). Tuttavia, in questi nati prematuri è molto alta l’incidenza di disabilità a distanza dalla nascita.
In caso di omessa/ritardata diagnosi prenatale di gravi malformazioni fetali, i genitori potranno avere diritto a richiedere un risarcimento del cosiddetto danno da nascita indesiderata.
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