Il problema del risarcimento malasanità e dell’errore medico.
È questo il momento di parlare di risarcimento malasanità e, più in dettaglio, di come fare ad ottenerlo dopo l’entrata in vigore della Legge Gelli. Proviamo a farlo con chiarezza ed esaustività.
Tra gli obiettivi del legislatore, che verranno di seguito esaminati in dettaglio, vi è quello di creare un sistema sostenibile, riducendo e prevenendo gli errori medici. Ma vediamo quali sono i numeri della malasanità, quanti sono i potenziali errori medici.
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Secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), nel 10% dei ricoveri si verificherebbero “eventi avversi”. Per evento avverso, secondo il glossario elaborato dal Ministero della salute, deve intendersi un evento inatteso correlato al processo assistenziale e che comporta un danno al paziente, non intenzionale e indesiderabile. Gli eventi avversi possono essere prevenibili o non prevenibili. Un evento avverso attribuibile ad errore medico è “un evento avverso prevenibile”.
Di questi circa la metà riguarderebbe fatti non prevenibili e conseguentemente non ascrivibili ad errori medici ovvero a problemi organizzativi della struttura. Se un paziente su dieci tra quanti vengono ricoverati può incorrere in un evento avverso, vediamo quale potrebbe essere la portata del fenomeno in Italia e quante persone potrebbero avere diritto ad un risarcimento malasanità.
Secondo il Rapporto sull’attività di ricovero ospedaliero relativa al primo semestre 2015, ultimo rapporto disponibile, pubblicato sul sito del Ministero della Salute, rapporto che fotografa l’attività di ricovero e cura per acuti, riabilitazione e lungo degenza degli ospedali italiani, pubblici e privati, il numero di dimissioni e quindi di prestazioni erogate in regime di ricovero ammonterebbe a oltre 4 milioni, numero peraltro in lieve diminuzione rispetto al volume di prestazioni erogate nel primo semestre dell’anno precedente.
Ipotizzando pertanto un volume annuo di ricoveri pari a circa 8 milioni, il numero di potenziali pazienti vittima di un “danno medico” per evento avverso ammonterebbe a circa 800.000. Sempre facendo riferimento alle stime dell’OMS, la metà circa di questi potenziali eventi avversi non sarebbe riconducibile a responsabilità medica in quanto si tratterebbe di eventi comunque non prevenibili.
Resterebbero tuttavia circa 400.000 pazienti per i quali la causa dell’evento avverso verificatosi durante il ricovero andrebbe ricercata in una incongruità nel percorso assistenziale, in un errore nel percorso diagnostico-terapeutico correlato alla condotta del personale sanitario ovvero riferibile ad un problema organizzativo della Struttura. In questo casi, pertanto, il “danno medico” riportato dal paziente sarebbe suscettibile di un risarcimento malasanità.
La potenziale portata del fenomeno in Italia appare pertanto di tutto rispetto e certamente meritevole di attenzione da parte delle Istituzioni.
Doveroso infatti comprendere la causa di quegli eventi avversi suscettibili di prevenzione o “eventi sentinella” al fine di apportare le dovute correzioni alle procedure assistenziali, sia in termini di formazione-aggiornamento del personale che di miglioramento organizzativo della struttura. Evitare gli “eventi avversi” evitabili consentirebbe infatti di ridurre il contenzioso medico-paziente e, conseguentemente, i costi diretti ed indiretti da esso derivanti.
Una riduzione di questi errori, permetterebbe inoltre di dedicare le risorse “risparmiate” ad azioni di promozione della Buona Sanità che consentirebbero di recuperare un corretto rapporto medico-paziente, necessario, non solo a favorire il buon esito della prestazione assistenziale, ma a ridurre il contenzioso medico e quei comportamenti viziati, definiti di medicina difensiva che nulla hanno a che vedere con una medicina corretta, centrata sul paziente e basata sulle evidenze scientifiche. Appare opportuno, anche al fine di agevolare la comprensione del fenomeno, richiamare i concetti fondanti la responsabilità medica alla base di un risarcimento malasanità.
La responsabilità medica, grazie soprattutto alle innumerevoli pronunce giurisprudenziali susseguitesi nel corso degli ultimi decenni, è attualmente inquadrata nell’alveo della responsabilità di tipo contrattuale.
Per orientamento, ormai consolidato della giurisprudenza, recepito anche dalla gran parte della dottrina, la responsabilità medica viene qualificata come contrattuale o da inadempimento ai sensi dell’art. 1218 c.c. in virtù di un contratto atipico, cosiddetto contratto di spedalità, avente ad oggetto prestazioni di assistenza sanitaria e che interviene tra la struttura sanitaria (pubblica e privata) ed il paziente al momento della sua accettazione in ospedale ad esempio per un ricovero.
Analogamente di natura contrattuale, secondo la teoria del cosiddetto “contatto sociale”, la responsabilità del medico ospedaliero. Per il medico libero professionista, la natura contrattuale della responsabilità si fonda invece su un contratto d’opera professionale stipulato direttamente con il paziente (artt. 2229 c.c. e seguenti).
La responsabilità di tipo contrattuale si distingue da quella extracontrattuale o aquiliana, disciplinata dall’art. 2043 c.c. e con la quale, in passato, si identificava la responsabilità del sanitario, essenzialmente per due importanti condizioni: la ripartizione dell’onere della prova ed il diverso termine di prescrizione.
Nella responsabilità di tipo contrattuale, infatti, il paziente danneggiato da un errore medico, a supporto della richiesta di risarcimento malasanità, dovrà provare solo il danno, limitandosi ad allegare l’inadempimento del sanitario e/o della struttura mentre a carico di questi ultimi, per l’applicazione del principio della vicinanza della prova [cfr. Cass. Civ. 4400/2004], resta l’onere di provare il corretto adempimento ossia l’assenza di colpa. Nella responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c. l’onere della prova rimane in carico al paziente che agisce in giudizio per ottenere un risarcimento malasanità.
La seconda differenza, come anticipato, riguarda i termini di prescrizione. Nella responsabilità contrattuale, infatti, il diritto del paziente danneggiato da un errore medico a richiedere un risarcimento malasanità si prescrive in 10 anni mentre nella extracontrattuale il diritto al risarcimento del danno si prescrive nel termine quinquennale.
Si potrebbe pensare che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento malasanità ossia al risarcimento del danno da responsabilità medica cominci a decorrere dal giorno in cui la condotta erronea del medico cagiona il danno al paziente o da quando il danno iatrogeno si manifesta. In realtà, come da orientamento costante della giurisprudenza, la decorrenza parte da quando viene percepito dal paziente il “danno ingiusto” ossia dal momento in cui “…la malattia viene percepita o può esserlo, con l’uso della ordinaria diligenza, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo” [tra le tante pronunce, Cass. Civ. 21715/2013].
Al fine di ottenere un risarcimento malasanità è necessario dimostrare l’esistenza di una responsabilità medica. Si configura una responsabilità medica quando risulta soddisfatto il nesso di causa tra l’errore medico e l’evento di danno, caratterizzato ad esempio dalla lesione della salute del paziente. La condotta medica illecita, responsabile di un danno per il paziente potrà essere di tipo commissivo (ad esempio: errore nella conduzione di un intervento chirurgico, prescrizione errata di un farmaco) ovvero di tipo omissivo (ad esempio: mancata somministrazione di una profilassi antibiotica in vista di un intervento chirurgico, omessa diagnosi di una malattia). La condotta erronea del medico è solitamente colposa. Difficile infatti il configurarsi di una condotta dolosa in ambito sanitario che prevedrebbe la volontà del medico di arrecare un danno al paziente. La legge penale, utilizzabile anche in ambito della responsabilità civile, stabilisce che si configura la colpa quando l’evento, anche se previsto, non è voluto dal medico e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia (colpa generica) ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline (colpa specifica).
Il concetto di diligenza riassume quell’insieme di attenzioni e cautele che il medico deve adottare nel compimento della propria opera professionale. La diligenza cui ci riferiamo in ambito sanitario è quella del “buon professionista” il quale ha il dovere di conoscenza e aggiornamento nonché di utilizzare le tecniche considerate maggiormente attendibili dal punto di vista scientifico. Deve cioè operare sulla base della cosiddetta evidence based medicine.
L’imprudenza riguarda invece la scarsa ponderazione dei rischi cui viene esposto il paziente ovvero, ad esempio, la mancata adozione di doverose cautele. In presenza di una condotta imprudente e/o negligente il medico risponderà in sede civile anche solo per colpa lieve.
Per imperizia, infine, si intende la scarsa cultura professionale, mancanza di adeguata preparazione scientifica ovvero l’insufficiente abilità tecnica.
La perizia richiesta si caratterizza di volta in volta di differenti significati tecnici e qualitativi sulla base dello standard medio di riferimento relativo alla specifica categoria.
In presenza di una condotta imperita, il medico risponderà solo per dolo o colpa grave ai sensi dell’art. 2236 c.c.. La limitazione di responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo e colpa grave attiene, secondo orientamento giurisprudenziale ormai prevalente, esclusivamente alla perizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà.
Per problemi tecnici di speciale difficoltà devono intendersi, come chiarito dalla giurisprudenza, casi particolarmente complessi o perché trascendano la preparazione media o perché non ancora studiati a sufficienza o perché dibattuti con riferimento ai metodi diagnostici, terapeutici o di tecnica chirurgica (Cass. 10.05.2000, n. 5945).
L’art. 43 del Codice Penale non prevede una distinzione tra colpa lieve e colpa grave, limitandosi infatti a definire un delitto colposo.
Questa distinzione può rilevare ai sensi dell’art. 133 c.p. per la commisurazione della pena. Con la legge n. 189/2012, c.d. legge Balduzzi, il medico, in sede penale, non risponderà più per colpa lieve, qualora dimostri di essersi attenuto alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.
In sede penale continuerà pertanto a rispondere solo per colpa grave ossia per errori macroscopici determinati dalla mancata adozione di quelle conoscenze scientifiche oramai acquisite e che dovrebbero far parte delle conoscenze minime del professionista.
Limitandoci all’ambito civilistico, quello cioè seguito per richiedere un risarcimento malasanità, il tema della causalità ha subito negli anni una progressiva evoluzione grazie all’attenzione della dottrina e alle numerose pronunce giurisprudenziali che hanno portato all’adozione del principio del “più probabile che non” ossia ad un criterio probabilistico di grado quantitativamente minore rispetto a quello richiesto in ambito penale per l’accertamento del nesso di causa che, diversamente, deve essere provato secondo un criterio di “elevata probabilità logica o credibilità razionale” ossia “oltre ogni ragionevole dubbio”.
Motivo dell’adozione, nel procedimento civile, di un diverso e minore grado di probabilità rispetto a quello penale risiede anche nel fatto che la responsabilità civile ruota sulla figura del (paziente) danneggiato mentre quella penale sulla figura del reo.
Nel 2012, il Legislatore, intervenendo sul tema della responsabilità sanitaria, ha emanato il Decreto Legge n. 158, noto come Decreto Balduzzi, convertito in Legge n. 189/2012, con l’intenzione di limitare la responsabilità penale dei medici.
A causa dell’esplicito riferimento all’articolo 2043 c.c., ha tuttavia generato dubbi interpretativi, almeno nei giudici dei Tribunali di merito, riguardo alla ipotizzata volontà del legislatore di riportare la responsabilità medica ad una responsabilità di tipo extracontrattuale.
L’art. 3 della Legge Balduzzi dispone che “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo“.
Sebbene alcune sentenze di merito abbiano interpretato il suddetto richiamo all’art. 2043 c.c. come la volontà del legislatore di riportare la responsabilità del medico nell’alveo della responsabilità extracontrattuale, mantenendo invece quella della struttura ospedaliera come contrattuale, creando, di fatto, un regime a “doppio binario” della responsabilità sanitaria, la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire la propria posizione in ordine agli effetti della legge Balduzzi, riportando la responsabilità civile sanitaria nell’alveo della responsabilità contrattuale anche per i medici.
Successivamente, il 26.03.2015, con decreto del Ministero della Salute fu istituita una “Commissione consultiva per le problematiche in materia di medicina difensiva e di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” che, a conclusione dei lavori (luglio 2015), ebbe a confermare che il medico dipendente o convenzionato risponde ai sensi del 2043 c.c. ossia secondo una responsabilità di tipo extracontrattuale mentre la struttura sanitaria risponde sempre per effetto del rapporto contrattuale con il paziente ex artt. 1218 e 1228 c.c.. Tale orientamento è stato poi ripreso dal legislatore nella recentissima legge n. 24 dell’8.03.2017, pubblicata nella G.U. n. 64 del 17.03.2017 ed entrata in vigore l’1.04.2017, dal titolo “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”.
La nuova legge Gelli sulla responsabilità medica, muovendo dalla necessità di recuperare un corretto rapporto medico-paziente, di costruire un modello di gestione del rischio clinico adeguato a prevenire gli eventi avversi, garantendo cure sicure, di rimodulare il regime della responsabilità medica e di contenere i costi derivanti dalla conflittualità in ambito di medical malpractice per garantire la sostenibilità del sistema anche mediante l’istituzione di un obbligo di assicurazione, arriva effettivamente a fare chiarezza sui molteplici dubbi interpretativi ed applicativi creati dalla legge Balduzzi.
Sulla natura della responsabilità sanitaria, la legge 24, con l’art. 7 “Responsabilità civile della struttura e dell’esercente la professione sanitaria”, elide i precedenti contrasti interpretativi, dando definitivamente vita ad un regime “a doppio binario” secondo il quale la struttura sanitaria (comma 1), al pari del medico che opera in regime di libera professione (comma 2), continuerà a rispondere ai sensi degli artt. 1218 e 1228 del c.c. ossia secondo una responsabilità contrattuale. Diversamente, il medico dipendente (comma 3) e più in generale tutti coloro che a diverso titolo svolgano la loro attività all’interno di una struttura od in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, risponderanno ai sensi dell’art. 2043 c.c., con ritorno, pertanto, ad una responsabilità extracontrattuale.
Tra le maggiori “novità” della nuova legge sulla responsabilità medica è opportuno richiamare anche i seguenti articoli:
L’art. 6 “Responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria”, introduce all’interno del Codice Penale l’art. 590-sexies che prevede espressamente la responsabilità colposa dell’operatore sanitario a seguito di morte o lesioni personali del paziente.
Al medico e più in generale al personale sanitario che nello svolgimento della propria opera cagiona colposamente, per negligenza e/o imprudenza, una lesione o la morte del paziente (si pensi ad esempio ad un errato trattamento chirurgico che comporta un danno al paziente o addirittura il suo decesso) verranno applicate le pene previste rispettivamente dall’art. 590 c.p. (lesioni personali colpose) e dall’art. 589 c.p. (omicidio colposo).
Nel caso in cui l’evento (lesioni personali o decesso del paziente) si sia verificato a seguito di una condotta imperita del medico è esclusa la sua responsabilità e quindi la punibilità se risultano rispettate le linee guida ovvero, in loro mancanza, il medico si sia attenuto alle buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.
Con il comma 2 dell’art. 6 viene infine abrogato il comma 1 dell’art. 3 della legge 189/2012 (legge Balduzzi) che fino a questo momento disciplinava la materia.
L’art. 5 “Buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida”, prevede che il personale sanitario, nello svolgimento della propria opera professionale, debba attenersi, “salvo le specificità del caso concreto”, alle raccomandazioni delle linee guida elaborate da Enti e Istituzioni pubbliche e private nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie ovvero, in mancanza di tali raccomandazioni, “alle buone pratiche clinico-assistenziali”. Viene demandato ad un successivo decreto del Ministero della Salute, da emanare entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, l’istituzione e la regolamentazione dell’iscrizione in apposito elenco degli Enti, delle Istituzioni, delle società scientifiche e associazioni tecnico-scientifiche, elenco che dovrà essere aggiornato con cadenza biennale (comma 2).
Le linee guida ed i relativi aggiornamenti saranno quindi integrati nel Sistema nazionale per le linee guida (Snlg) disciplinato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge. L’Istituto Superiore di Sanità pubblica sul proprio sito Internet gli aggiornamenti e le linee guida indicati dal Snlg previa verifica di conformità della metodologia adottata a standard definiti e resi pubblici dallo stesso Istituto (comma 3).
Altra novità è rappresentata dall’obbligatorietà di tentare una conciliazione prima dell’attivazione dell’eventuale causa civile ordinaria. Diversamente da quanto già in precedenza previsto dalla legge Balduzzi, la nuova legge 24/2017 prevede, all’art. 8 “tentativo obbligatorio di conciliazione“, che il paziente che ritiene di essere vittima di un danno medico, sia tenuto a proporre preliminarmente ricorso ai sensi dell’articolo 696-bis c.p.c. dinanzi al giudice competente.
La presentazione del ricorso per l’espletamento di una consulenza tecnica preventiva, finalizzato al tentativo di composizione della lite, rappresenta pertanto condizione di procedibilità della domanda di risarcimento del danno, alternativa al solo procedimento di mediazione che era in precedenza previsto dalla legge Balduzzi che rimane comunque ancora percorribile, se preferito dal paziente danneggiato.
Nel caso di fallimento del tentativo di conciliazione ovvero se il procedimento non si conclude nel termine di 6 mesi dalla data di presentazione del ricorso, la domanda diviene procedibile.
La mancata partecipazione delle parti (comprese le assicurazioni) al procedimento di consulenza tecnica preventiva obbliga il giudice a condannarle, con il provvedimento che definisce il giudizio, al pagamento delle spese di consulenza e di lite, a prescindere dall’esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione.
Vi è pertanto l’obbligo per le parti di partecipare al tentativo di conciliazione. Le compagnie di assicurazione del medico o della struttura sanitaria saranno obbligate a formulare l’offerta di risarcimento del danno ovvero a comunicare i motivi per cui ritengono di non formularla.
La nuova legge sulla responsabilità sanitaria, al comma 4 dell’art. 7, disciplina le modalità di liquidazione del danno alla persona, precisando che il danno medico è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7.09.2005, n. 209.
Il richiamo agli artt. 138 e 139 che prevedono specifiche regole liquidative da applicarsi in tema di danno alla persona nel settore della responsabilità civile auto (RCA), dimostra la volontà del legislatore di creare parametri liquidativi certi che consentano una corretta assunzione del rischio e contengano i risarcimenti entro livelli standardizzati. Ciò oltre ad essere ovviamente penalizzante per il paziente danneggiato, rappresenta una voluta deriva indennitaria del risarcimento del danno.
L’art. 138 del codice delle assicurazioni prevede la predisposizione di una tabella nazionale delle menomazioni alla integrità psico-fisica (danno biologico) tra 10% e 100%, c.d. macropermanenti e del valore pecuniario da attribuire ad ogni singolo punto di invalidità comprensiva dei coefficienti di variazione corrispondenti all’età del soggetto leso. Si precisa al comma due del predetto articolo che la tabella dei valori economici si fonda sul sistema a punto variabile in funzione dell’età e del grado di invalidità.
Vi sarà pertanto un aumento del valore economico del punto percentuale al crescere dell’invalidità ed al diminuire dell’età.
Al comma 3, invece, si contempla la possibilità (da parte del giudice) di un aumento sino al 30% dell’ammontare del danno determinato ai sensi della tabella unica nazionale nel caso in cui la menomazione accertata incida in maniera rilevante su particolari aspetti dinamico-relazionali del danneggiato ossia sulla capacità di quest’ultimo di continuare a svolgere specifiche attività (ad esempio di tipo hobbistico e sportive) alle quali in precedenza era abitualmente dedito.
L’art. 139 del codice delle assicurazioni disciplina invece le modalità liquidative del danno biologico per lesioni di lieve entità da 1% a 9%, c.d. micropermanenti. Anche in questo è prevista la possibilità da parte del giudice di aumentare l’ammontare del danno (determinato secondo i parametri stabiliti al comma 1) “con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato”, aumento tuttavia limitato ad un quinto.
Le modalità liquidative del danno biologico derivante da errori medici, sebbene chiaramente definite dalla nuova legge Gelli, troveranno al momento solo parziale applicazione in quanto non risulta tutt’oggi approvata quella tabella unica nazionale delle macropermanenti di cui all’art. 138 del codice delle assicurazioni.
Per le lesioni di non lieve entità, fino a quando non sarà pubblicata la predetta tabella unica nazionale, si continuerà pertanto a quantificare il risarcimento del danno sulla base delle tabelle del Tribunale di Milano.
In apertura, la nuova norma afferma che la sicurezza delle cure costituisce parte integrante del diritto alla salute e viene perseguita riportando in equilibrio il rapporto medico-paziente, riducendo il ricorso alla medicina difensiva, ottimizzando l’utilizzo delle risorse e creando sistemi efficienti di prevenzione dell’errore medico.
La prevenzione degli errori deve essere realizzata con la creazione di un modello organizzativo che prevede la istituzione di Centri regionali ad hoc dedicati alla raccolta dei dati regionali sui rischi ed eventi avversi e sul contenzioso sanitario ed alla loro trasmissione mediante relazione annuale all’ “Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità”.
L’Osservatorio nazionale, istituito presso l’AGENAS (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) entro 3 mesi dall’entrata in vigore della, dovrebbe quindi individuare idonee misure per la prevenzione e la gestione del rischio sanitario, avvalendosi anche del Sistema informativo per il monitoraggio degli errori in sanità (SIMES).
Altrettanto importante, specie per l’utenza delle strutture sanitarie, è la trasparenza voluta dal legislatore sui dati relativi ai risarcimenti erogati dalle strutture nell’ultimo quinquennio.
L’art. 4, comma 3, prevede infatti che tali dati siano pubblicati sul sito internet istituzionale dell’azienda sanitaria, nel quale dovrà essere inoltre pubblicata annualmente una “relazione consuntiva sugli eventi avversi verificatisi all’interno della struttura, sulle cause che hanno prodotto l’evento avverso e sulle conseguenti iniziative messe in atto”.
Sempre nell’ambito dell’obbligo di trasparenza disciplinato dall’art. 4, viene previsto che a fronte di una richiesta, da parte del paziente o degli aventi diritto, di copia della documentazione sanitaria, la struttura fornisca quanto richiesto entro sette giorni, preferibilmente in formato elettronico. Si precisa inoltre che le eventuali integrazione siano, in ogni caso, fornite entro il termine massimo di 30 giorni. Stabilito infine il termine di 90 giorni dalla entrata in vigore della norma entro il quale le strutture sanitarie dovranno soddisfare le tempistiche precedentemente richiamate sull’accesso agli atti da parte del paziente.
All’art. 10, comma 4, viene infine previsto che sul sito internet della struttura sanitaria venga pubblicata la denominazione dell’impresa di assicurazione che presta la copertura assicurativa con indicazione per esteso dei contratti stipulati.
Ultima novità che riteniamo opportuno ricordare riguarda l’obbligo di assicurazione stabilito dal legislatore con l’art. 10 della legge 24/2017 per tutte le strutture sanitarie, pubbliche e private per la responsabilità civile verso terzi (anche per il personale sanitario dipendente) e per la responsabilità civile verso prestatori d’opera.
La copertura assicurativa si applica anche ai medici che operano in regime di libera professione intramuraria o di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale. L’obbligo assicurativo si estende anche ai medici libero professionisti. Ciascun esercente la professione sanitaria operante in strutture sanitarie pubbliche o private provvede, inoltre, alla stipula (con oneri a proprio carico), di una polizza assicurativa per colpa grave.
In caso di colpa grave è infatti possibilità della Struttura esercitare azione di rivalsa nei confronti del medico successivamente all’erogazione del risarcimento ed entro un anno dall’avvenuto pagamento. Demandato, anche in questo caso, ad un successivo decreto del Ministero dello sviluppo economico, da emanare entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, la definizione dei requisiti minimi delle polizze assicurative e l’individuazione di classi di rischio a cui far corrispondere massimali differenziati.
L’art. 10, al comma 1, prevede inoltre che le strutture sanitarie possano dotarsi, in alternativa alla copertura assicurativa, “di altre analoghe misure” per la responsabilità civile verso terzi (anche per il personale sanitario dipendente) e per la responsabilità civile verso i prestatori d’opera, attendibilmente riferendosi alle strutture sanitarie che operano in “autoassicurazione” ossia mediante una gestione diretta del contenzioso sanitario.
Sempre al predetto decreto del Ministero dello sviluppo economico viene demandata la disciplina della creazione e previsione nel bilancio delle strutture di un fondo rischi e di un fondo di accantonamento delle riserve per i sinistri denunciati, accantonamento che attualmente non avveniva.
Viene inoltre stabilito che l’operatività delle garanzie assicurative dovrà essere estesa ai 10 anni precedenti (purchè la richiesta di risarcimento giunga durante la vigenza temporale della polizza) e successivi alla conclusione del contratto assicurativo. L’estensione ai 10 anni successivi dovrà inoltre essere estesa agli eredi. Viene pertanto previsto un sistema di copertura che dovrebbe maggiormente tutelare il paziente danneggiato garantendo la solvibilità degli oneri risarcitori e quindi al paziente danneggiato di percepire il dovuto risarcimento. Tale garanzia viene inoltre consolidata dalla previsione di un fondo per i danni derivanti da responsabilità medica, la cui gestione sarà affidata dal Ministero della salute alla CONSAP.
Questo fondo di garanzia consentirà il risarcimento di danni medici nei casi in cui il danno sia di importo eccedente rispetto ai massimali previsti dai contratti assicurativi stipulati dalle strutture sanitarie ovvero dal personale sanitario, le compagnie di assicurazioni risultino insolventi o le strutture ed i medici non siano provvisti di copertura assicurativa.
La nuova legge sulla responsabilità medica determina pertanto un riassetto della materia, stabilendo con maggiore chiarezza le “regole del gioco” ossia definendo i diritti dei pazienti danneggiati ed i doveri organizzativi e di assistenza delle strutture sanitarie nonché le modalità operative del personale sanitario chiamato a riappropriarsi del ruolo di garanzia nei confronti della salute dei pazienti che, anche nel rispetto delle risorse economiche, dovranno essere assistiti/curati, salvo le specifiche peculiarità del caso concreto, secondo le indicazioni di comportamento derivanti dalle linee guida ovvero, in loro mancanza, secondo le buone pratiche cliniche.
La previsione di un regime a doppio binario, indurrà inevitabilmente i pazienti danneggiati a rivolgere preferenzialmente le proprie richieste di risarcimento malasanità nei confronti delle strutture sanitarie, non agendo più direttamente contro il medico dipendente che è tornato a rispondere per responsabilità extracontrattuale con conseguente spostamento dell’onere probatorio sul paziente e riduzione dei termini di prescrizione a 5 anni. Sarà pertanto più semplice per il paziente ottenere il richiesto risarcimento malasanità agendo contro la struttura che continuerà invece a rispondere per responsabilità contrattuale.
Sarà tuttavia necessario attendere del tempo per verificare se lo spirito che ha animato il legislatore troverà riscontro pratico positivo nell’applicazione della norma, attesa necessaria a valutare anche il contenuto dei decreti cui è stata demandata la disciplina di molte innovazioni legislative, tra le quali di maggiore interesse quelle attinenti il riconoscimento scientifico delle linee guida e la definizione delle misure di copertura alternative alle polizze di assicurazioni, di cui potranno dotarsi le strutture per la gestione delle richieste di risarcimento per errori medici.
A distanza di oltre tre anni dall’entrata in vigore della Legge n. 24/2017 sulla responsabilità sanitaria, purtroppo, non sono stati ancora emanati i decreti attuativi cui il legislatore aveva demandato la regolamentazione di molti aspetti innovativi introdotti dal legislatore e la cui assenza rende la riforma sulla responsabilità sanitaria inevitabilmente incompleta e non pienamente operativa.
Lo stesso Gelli, in una intervista pubblicata sul portale “sanità informazione” nel luglio 2020, sottolineando la necessità di approvazione di una norma specifica sulla responsabilità sanitaria legata all’emergenza Covid-19, affermava che i decreti attuativi di competenza del Ministero dello Sviluppo Economico avevano “pressoché concluso” il loro iter, ottenendo parere favorevole del Ministero dell’Economia e della Salute.
Secondo Gelli mancava, di fatto, solo la firma del Ministro per l’emanazione dei tre decreti attuativi demandati al Ministero dello Sviluppo Economico, firma che sarebbe dovuta arrivare a breve.
Sarebbe quindi seguita l’emanazione del quarto decreto, demandato al Ministero della Salute, relativo all’istituzione del fondo di garanzia per i pazienti danneggiati che non avevano percepito il dovuto risarcimento malasanità ad esempio a causa dell’insolvenza da parte delle Compagnie di assicurazione o direttamente delle Strutture non assicurate.
Nonostante l’auspicio del padre della Legge 24/2017, a dicembre 2020, nonostante l’impegno assunto dallo stesso Ministro della Salute ed i solleciti di vari parlamentari, i suddetti decreti attuativi, probabilmente complice anche l’emergenza legata al Covid-19, non hanno ancora visto la luce.
Quelle nuove “regole del gioco” istituite con la Legge Gelli, pertanto, non risultano ancora pienamente operanti.
A colmare gli spazi lasciati dal legislatore, come spesso accaduto in passato, è intervenuta, anche per la responsabilità sanitaria, la giurisprudenza e, segnatamente, la terza sezione civile della Suprema Corte di Cassazione che, in data 11 novembre 2019, ha depositato ben 10 sentenze cui è stato riconosciuto, pur non essendo pronunce rese a Sezioni Unite, un ruolo centrale ed una valenza primaria per la disciplina della responsabilità civile sanitaria.
Le dieci sentenze depositate dalla terza sezione civile della Cassazione l’11 novembre 2019 giungono, volutamente, ad undici anni di distanza dalle quattro sentenze di San Martino del 2008 (n. 26972, n. 26973, n. 26974, n. 26975) che avevano ridisegnato i confini del danno alla persona e mirano a risolvere contrasti interpretativi in essere ed a confermare orientamenti giurisprudenziali già consolidati.
Le decisioni della Suprema Corte affrontano aspetti centrali della responsabilità sanitaria:
La legge 24/2017 (c.d. Legge Gelli) non precisa alcunché riguardo alla sua eventuale portata retroattiva, lasciando pertanto spazio a dubbi interpretativi sulla natura della responsabilità sanitaria prima del 2012, entrata in vigore della cosiddetta Legge Balduzzi e nell’arco temporale intercorrente tra questa e la Legge Gelli, nonché sulle tabelle applicabili per la liquidazione del danno.
Con la pronuncia n. 28994 dell’11 novembre 2019, la Suprema Corte ha stabilito la non retroattività delle norme sostanziali contenute nella Legge 24/2017 e della Legge 188/2012, applicabili unicamente a fattispecie verificatesi successivamente alla loro entrata in vigore, rispettivamente l’1 gennaio 2013 e l’1 aprile 2017.
Nella medesima pronuncia viene inoltre sottolineato come la Legge 24/2017 abbia operato “in via immediata e diretta la qualificazione giuridica dei rapporti inerenti ai titolo di responsabilità civile riguardanti la struttura sanitaria e l’esercente la professione sanitaria”, ribadendo la natura contrattuale della responsabilità della struttura ed affermando, diversamente, la natura extracontrattuale di quella del sanitario operante nella struttura “salvo l’ipotesi residuale dell’obbligazione assunta contrattualmente da quest’ultimo”.
Per la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria operante nell’ambito della struttura, pertanto, la Legge 24/2017, come ribadito dalla Suprema Corte, si discosta dall’orientamento oramai consolidato che dal 1999 aveva qualificato come di natura contrattuale anche la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria facendo leva sul cosiddetto contatto sociale.
Con la pronuncia n. 28990 dell’11 novembre 2019, la Suprema Corte pone fine ai conflitti interpretativi fino a quel momento esistenti sulla possibilità di applicare retroattivamente il meccanismo di liquidazione previsto dagli artt. 138 e 139 del codice delle Assicurazioni private ai sensi dell’art. 3 della Legge Balduzzi e dell’art. 7 della Legge Gelli.
Di fatto, pertanto, la sentenza condivide le ragioni che hanno portato il legislatore ad estendere anche alla responsabilità sanitaria i criteri liquidativi della responsabilità civile auto.
Per i danni contenibili nell’ambito delle c.d. micropermanenti (fino al 9% di invalidità), pertanto per la liquidazione del danno si farà riferimento alla specifica tabella di legge del danno biologico di lieve entità di cui all’art. 139 del Codice delle Assicurazioni per come aggiornata dal Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 9 gennaio 2019.
Per i danni dal 10% al 100% (c.d. macropermanenti), in assenza della tabella di legge di cui all’art. 138 del Codice delle Assicurazioni si farà necessariamente riferimento alle tabelle del Tribunale di Milano.
Con la pronuncia n. 28991 dell’11 novembre 2019, la Suprema Corte conferma i principi già affermati con la sentenza n. 18392 del 26.07.2017 in tema di nesso di causa, ribadendo che spetta al paziente (creditore) l’onere di provare l’esistenza del nesso di causa tra la condotta (censurata) del sanitario e l’evento di danno.
Con la pronuncia n. 28992 dell’11 novembre 2019, la Suprema Corte ribadisce il principio distributivo dell’onere della prova in responsabilità sanitaria, precisando che il paziente danneggiato deve provare il nesso di causalità materiale tra la prestazione sanitaria ed il danno lamentato e che spetta invece al debitore (struttura o personale sanitario) provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione.
Nei casi in cui risulti impossibile eliminare le incertezze eziologiche del danno le conseguenze sfavorevoli ai fini del giudizio ricadranno sul creditore mentre se resta ignota la causa di impossibilità sopravvenuta della prestazione di diligenza professionale o non dimostrata l’imprevedibilità ed inevitabilità di tale causa, le conseguenze sfavorevoli ricadranno sul debitore.
Con la pronuncia n. 28985 dell’11 novembre 2019, la Suprema Corte è ritornata sul consenso informato precisando i possibili danni derivanti da una omessa informazione al paziente circa l’atto sanitario proposto, i rischi e le possibili alternative terapeutiche.
La Corte ha confermato ed implementato l’elaborazione giurisprudenziale dell’ultimo decennio in materia di consenso informato, affermando che la violazione del diritto di informazione del paziente può generare due tipi di danno:
Con la sentenza n. 28986 dell’11 novembre 2019, la Suprema Corte entra nel merito del cosiddetto danno differenziale, definendolo e precisando le sue modalità di liquidazione, dettando altresì la metodologia accertativa medico legale.
Per danno differenziale in tema di responsabilità sanitaria si intende il maggior danno causato al paziente dal trattamento sanitario erroneo e che dovrà essere liquidato monetizzando la percentuale di invalidità complessiva residuata al paziente dopo il trattamento erroneo e sottraendo a tale cifra quella derivante dalla monetizzazione della prevedibile invalidità che avrebbe comunque riportato il paziente quale esito del trattamento sanitario anche nel caso in cui fosse stato eseguito secondo leges artis.
Sottolinea la Suprema Corte che non è compito del medico legale ma del giudice delimitare il perimetro dei danni risarcibili.
Compito del medico legale è dunque quello di “misurare” la percentuale di invalidità complessivamente accertata ossia quella determinata dall’aggravamento iatrogeno dello stato anteriore del paziente e quella legata al suo stato anteriore (invalidità preesistente all’atto sanitario).
Sarà quindi il Giudice a monetizzare le due diverse percentuali di invalidità (quella preesistente e quella complessiva derivante dal fatto illecito), sottraendo il valore economico del grado di invalidità preesistente, non correlato al fatto illecito, da quello dell’invalidità complessivamente accertata. Sono infatti risarcibili le maggiori funzioni vitali perdute dal paziente e le conseguenti privazioni a costituire il danno risarcibile e non il grado di invalidità che ne è solo una misura convenzionale e che non sarebbero correttamente risarcite se si tenesse conto solo del “delta” di invalidità ossia dell’incremento del grado percentuale di invalidità permanente ascrivibile alla prestazione sanitaria.
Il danno da perdita del rapporto parentale è una forma di danno non patrimoniale configurabile in caso di morte del congiunto ovvero anche di lesione invalidante del congiunto incidente negativamente sulla sfera famigliare.
Con la sentenza n. 28989 dell’11 novembre 2019, la Suprema Corte esclude che al prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza di errore medico possano essere liquidati sia il danno da perdita del rapporto parentale che il danno esistenziale poiché il primo già comprende lo sconvolgimento dell’esistenza.
Afferma inoltre che “la congiunta attribuzione del danno morale (non altrimenti specificato) e del danno da perdita del rapporto parentale costituisce indebita duplicazione di risarcimento, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita (sul piano morale soggettivo), e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita (sul piano dinamico relazionale), rappresentano elementi essenziali dello stesso complesso e articolato pregiudizio, destinato ad essere risarcito sì’ integralmente, ma unitariamente”.
La perdita di chance, secondo orientamento giurisprudenziale maggiormente condiviso, viene qualificata in termini di danno emergente (c.d. tesi ontologica). Si dovrà accertare la relazione causale tra condotta sanitaria ed evento di danno (ad es. possibilità di sopravvivenza perduta).
Con la sentenza n. 28933 dell’11 novembre 2019, la Suprema Corte torna sulla perdita di chance, sviluppando le seguenti ipotesi:
A distanza di oltre 3 anni dall’entrata in vigore della Legge Gelli la disciplina della responsabilità sanitaria non risulta ancora pienamente regolamentata. Nell’attesa dell’emanazione dei decreti attuativi previsti dal legislatore per la messa “a regime” della riforma che ci auspichiamo avvenga rapidamente, ci affidiamo al decalogo fornito dalla Suprema Corte con le sentenza dell’11 novembre 2019 di cui sarà interessante verificare i riflessi nella gestione pratica delle richieste di risarcimento malasanità e nello sviluppo dei contenziosi ad esse conseguenti.
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